Gli anni tra il 1919 e il 1924 furono travagliati e irripetibili. Anche il Lodigiano, un fazzoletto di centottantamila abitanti situato nella pianura tra Milano e il Po, fu protagonista e testimone di eventi a un tempo drammatici e terribili, costruttivi ed esilaranti.
La Grande guerra si era portata via cinquemila contadini. La disoccupazione era dilagante, e per alcuni agricoltori della Bassa la pelle di una vacca valeva di più di quella di un bracciante.
Socialisti e comunisti innalzarono la bandiera rossa su cinquanta municipi del territorio – cinquanta su settanta – auspicando di esportare in Italia la rivoluzione che stava insanguinando la Russia, mentre preti illuminati rispondevano con la medesima passione. In soli due anni centocinquanta scioperi scossero il territorio. La povertà moltiplicò le ruberie, compiute con una ferocia inaudita, e in venti mesi la delinquenza comune si macchiò di 18 delitti. Altri 15 furono i morti ammazzati dalle squadre fasciste e 5 dagli arditi del popolo.
Eppure la comunità guardava con fiducia al futuro.
I primi macchinari fecero la loro apparizione nei campi, e in poco tempo nacquero duecento cooperative: spacci di generi alimentari, circoli operai, associazioni per la produzione e il lavoro e vennero fondate trenta casse rurali e artigiane. Lodi che aveva conosciuto le visite di Mussolini rivoluzionario, ateo e mangiapreti, lo rivide poco tempo dopo in camicia nera, tra un alalà di gerarchi ossequiosi a un regime che sarebbe durato vent’anni, prima di concludersi con le leggi razziali e con un altro bagno di sangue.